Tradurre può anche significare pensare la voce. Se l’amorosa devozione che soggiace all’atto del tradurre empatico è un trasporto vocale, la voce del testo di partenza ragionerà nella mente del traduttore per tutto il tempo necessario a che esso vi risuoni, e a che prendano corpo le risonante della memoria poetica nella lingua d’arrivo. Questo viaggio dei suoni in una dimensione mnemonica spazio-temporale porta il traduttore ad un recupero inconscio delle voci, non in senso metaforico, della tradizione. Traducendo, infatti, o leggendo una traduzione, si ha spesso la sensazione, talvolta sgradevole per impertinenza, altre volte foriera di ammiccanti complicità a tre (autore, traduttore, lettore) – oppure di bonomiche pacificazioni a fronte dell’universalità del sentire -, si ha spesso, insomma, la sensazione di citare o sentir citare a memoria. Prima che il traduttore arrivi allo schiocco di dita perché ha trovato la citazione, quella che dà credibilità e leggibilità al testo d’arrivo facendolo approdare il più possibile illeso nel porto del linguaggio poetico straniero all’autore, nella memoria sonora di chi sta traducendo avviene un rimpasto ai livelli fonematici degli ingredienti poetici incorporati: le memorie contestuali si manifesteranno dapprima come scorrelate aggregazioni di suoni, catene fonematiche sparse, che solo in un secondo momento riguadagneranno l’assetto semantico della contestualità, nonché la sincronica messa a fuoco dei rimandi intertestuali. È sillabando che “si trova la parola”, ma la sillabazione riconduce alla genesi prediscorsiva (prelinguistica) del testo, alla base fonoritmica del dettato di altrui voci. Voci appunto, non significati referenziali ma materialità sensuale dei significanti, voci che sussurrano o percuotono mentre si prendono un corpo di parole: il movimento incessante della signifìcanza. Se poi il traduttore e il tradotto hanno anche un approccio performativo, quindi doppiamente “sensuale”, col fare poetico, ovvero se il testo di partenza è, per usare una felice espressione di Fortini, una «poesia ad alta voce»[1], e il testo d’arrivo è affidato alla cura di un traduttore-lettore ad alta voce, pensare la voce, scrivere la voce, riassume interamente il senso dell’operazione.

Anne Sexton fu poeta-performer, non tanto o soltanto perché si faceva accompagnare nelle sue letture da un gruppo di musicisti rock, quanto perché concepiva la pratica poetica, il suo stile, come retorica dell’actio, unione inscindibile di gesto (di incarnazione del testo) e dizione, phoné, dove l’io lirico non è un soggetto ma una sua maschera, un personaggio che per rappresentarsi “prende la parola”, un io prosopopeico insomma, con quell’enfasi che di arcaica necessità teatrale, da poema orale, lo accompagna: il fenomeno pop, il freak show[2] che la rese celeberrima, specialmente all’altezza della scrittura di Love Poems (1969), raccolta appunto di “canzoni d’autore” – e della specie più sanremese, canzoni d’amore – era un binomio inscindibile ed esplosivo di mascherata kitsch e “grana della voce”, per dirla con Barthes, quella voce rauca, resa sgranata dall’abuso di alcol e droghe, da tragica femme fatale dei suburbi, quel timbro costante di diaframma, dai toni inespressivi, fedeli al ritmo prosodico, che la registrazione dei suoi readings ci ha conservato. Il testo era per la poetessa americana un’unità mobile, vocativa, dettato dall’esperienza della pratica performativa, dall’arte di una fonazione che precede il testo rendendolo poi sempre passibile di modifiche al momento del rewriting stage, della riscrittura vocale[3], della verifica sul palcoscenico, dell’inverarsi del corpo fonico, della materialità del significante, cioè al momento del ritorno del testo alla fluttuante e fluida origine sonora, poi cagliata in scrittura. «Scrittura ad alta voce», per usare un’altra categoria di Barthes – anzi condividendo gli auspici barthesiani per la fondazione di un’eversiva «estetica del piacere testuale»[4] – fu la ragione formale (nonché l’impulso etico di fondo) della poesia di Anne Sexton.

Si è però usato impropriamente il termine ‘teatrale’: la poetessa-performer non è un personaggio nel senso drammaturgico del termine, non rappresenta un altro da sé, rappresenta i molteplici Sé dell’io poetante. La poetessa-performer mette in scena le sue voci dell’Altro. Per semplificare: legge ad alta voce la sua scrittura ad alta voce. Che è come dire che la lettura ad alta voce è strutturalmente apparentabile a quel trasporto vocale del testo cui sopra si accennava. La lettura ad alta voce è allora uno dei possibili modi del tradurre, può diventare uno stile di traduzione. La lettura ad alta voce ha però meno a che vedere con 1′interpretazione che con la ricreazione del testo, poiché non è giocata sul recupero dei significati ma sulla reviviscenza dei livelli fonici, deve essere una traduzione fedele alla voce del testo: ad ogni testo basta la sua prosodia, tratti sovrasegmentali abusivi non sono concessi al performer che sia anche poeta. La trasposizione vocale del testo poetico, in quanto riscrittura orale, è una forma di traduzione dello stesso testo appartenente al genere (ancora tutto da codificare, in quanto tale, nonostante i ripetuti avvicinamenti barthesiani) della poesia ad alta voce; dunque la traduzione poetica effettiva dovrà tenerne conto. In tal senso una traduzione-lettura ad alta voce della poesia di Anne Sexton risulta essere un’appropriazione assolutamente debita, necessitata. Se però la lettura ad alta voce è genericamente ascrivibile all’ambito della traduzione poetica, come ogni traduzione appropriata non si limiterà a (ri)produrre senso, tenderà a prolungarlo, per quel fenomeno retorico di ridondanza sonora che investe la memoria poetica, e talvolta potrà perfino – ma senza tradirlo “troppo”, restando fedele almeno all’accento, all’intentio retorica – saturare o sutu-rare certi “vuoti d’aria” del flatus testuale, ma iuxta propria principia consuonando.

Proviamo dunque a ricostruire le tappe di questo lavorìo – in parte intimo, inconscio, in parte ‘estroverso’ in quanto performativo, in quanto scritto ad alta voce -, a posteriori, con la speranza che l’esito anche per chi legge, come per chi scrive, sia il piacere della complicità di un riconoscimento piuttosto che l’impertinenza di uno sconfortante overlapping. Comunque incoraggiati, nella captatio implicita all”excusatio non petita, dallo straziante, fragile, tono parodico che dominando il testo ne svuota dall’interno l’intentio lirica: se l’afflato nostalgico-elegiaco prima si smorza, poi precipita nella prosa di una mercificata ripetizione di gesti quotidiani, all’evidente forzatura di un imbrigliamento rimico “facile” può ben corrispondere la ridondanza di un patchwork di citazioni orecchiabili, alcune leni e cantabili nello stridore dominante della corrosiva ironia.

Sexton/Dante. Queste voci vo comparando. Appunti per una poetica della traduzione orale, in “Semicerchio. Rivista di poesia comparata”, XVIII, 1998, 1, pp. 26-35.

Scarica il saggio completo in pdf