di Rosaria Lo Russo – Scrivo questa nota con l’intenzione di prender parte all’ennesimo dibattito – in questo caso implicito: reagisco agli stimoli dei saggi di Luigi Nacci e Dome Bulfaro sul poeta performer e al loro invito congiunto a dire la mia – sulla ragion d’essere sociale del “fare” poetico, un “fare” talmente assoluto e talmente arcaico da essere l’arcano oggetto del riflettere e del dibattere, specialmente nell’animatissimo mondo dei blog e delle riviste on line, di quanti praticano l’arte poetica. La prendo larga: la cosa chiamata poesia, questo termine-oggetto genericissimo, alla macchia nella vita reale, perché priva, o meglio privata, di un mercato, e quindi fuori dai movimento economici, pervade invece la rete, questo spazio di libertà – di gratuità -, come un sogno di molti. La poesia è l’inutile bene rifugio di tanti, è una valanga di parole che precipita informe quotidianamente invadendo i cristalli liquidi dei nostri computer o le pagine di carta delle edizioni a pagamento del sedicente autore. La poesia non è più, dalla seconda metà del Novecento circa, un genere letterario dotato di tecniche specifiche: sono anni che in ogni dibattito sulla poesia arriva sempre il momento di tirare in ballo il Canone. Il non meglio identificato Canone poetico. La Tradizione Letteraria, con le sue regole metrico-retoriche. Non per nulla quelli che oggi si considerano gli Ultimi Grandi, gli Editi nella Bianca Einaudi, sono i neometrici: Valduga e Frasca stanno per assurgere, per età e produttività, al ruolo di Grandi Vecchi. Ovvero la considerazione di cui godono i poeti affermati sta nella fedeltà, nell’arroccamento, al valore del Canone Tradizionale, questo sconosciuto ai più. Si producono, al contempo, decine di migliaia di sonetti perfetti: per darsi la patente di poeta? Sembrerebbe insomma che lo stato dell’arte fosse così riassumibile: c’è una gran quantità di robetta e robaccia che circola nel web e nelle edizioncelle autoprodotte, ma i Grandi esistono ancora. E pubblicano con la Bianca Einaudi. Questo è il luogo comune della massa degli addetti ai lavori e dei praticanti, perché in questo contesto un pubblico della poesia non è concepito, visto che le vendite dei libri sono irrilevanti e che i giornali raramente recensiscono anche i Grandi Editi. L’argomento meriterebbe pagine e pagine di riflessione, ma questi accenni valgano solo per dire che il termine-oggetto poesia è abusato, assolutamente non chiaro e niente affatto univoco. Cosa si intenda oggi quando si dice “poesia” è estremamente vario e, ripeto, il termine oramai è genericissimo; non per nulla l’aggettivo “poetico” è abusato come sinonimo di bello, cosa che dipende molto probabilmente da ciò cui accennavo poco fa, ovvero che la poesia come sproloquio autoreferenziale coincide per lo più con un esercizio privato di esternazione informe degli stati d’animo personali, i quali godono oggi di un valore etico ed estetico assoluto.
La prima cosa da “fare” sarebbe dunque una tassonomia che ridefinisca cosa si intende per poesia, quando se ne parla.
E, di conseguenza, cosa si intende per poeta. Se chiunque si può autodefinire poeta significa che nella nostra lingua questa parola non significa più nulla, allo stato attuale.
Le cose si complicano ulteriormente quando alla parola poeta si associa l’attributo di performer…
Leggi il saggio completo a queston link: Il mandato sociale del poeta, in SlamContemPoetry, pubblicato il 28-03-2017
(Riproduzione riservata, Articolo tratto dalla Rivista in pensiero 04)