]Firenze, La Repubblica, martedì 9 aprile 2024.]

La poesia di Rosaria Lo Russo ha tutte le carte in regola per essere considerata “out” dall’accademia. Inetichettabile, sfuggente alle regole, ai canoni ma anche ai controcanoni, è però finita nella decina dei candidati allo Strega poesia. Nonostante il libro in questione, Tande, sia uscito per una piccola casa editrice, Vydia, che non può certo giocare sul proprio peso. «Sono onorata e stupita — dice Lo Russo, 60 anni, fiorentina di origini calabresi, è anche traduttrice e performer — Mi fa piacere che la giuria così prestigiosa abbia posto attenzione al mio libro: io non mi sarei mai buttata nella mischia. Considerando quanto la ricezione critica della poesia in Italia sia diventata problematica, lo considero un bel traguardo. Ormai ci sono molti poeti e pochi critici».

Perché è accaduto questo?

«La critica militante che sosteneva determinate poetiche ha resistito fino a che sono rimaste in vita riviste letterarie con un’importanza effettiva. Oggi i giovani poeti rifiutano ogni tipo di poetica, anzi, fanno dello scrivere libri molto diversi un punto di forza. E se le poetiche non hanno più centralità, i critici non hanno più ragione d’essere. Ormai sono i poeti a scrivere sui poeti, i ventenni sui loro coetanei, idem per i trentenni e così via; l’iperspecializzazione ha confinato i veri, ultimi critici nelle nicchie universitarie».

La motivazione dello Strega punta molto sull’uso stratificato della lingua «dai classici alla citazione pop», trasversalità che lo status quo della poesia ha sempre osservato con distacco. Ha vinto una sfida?

«Si, una sfida che parte da lontano e che ha avuto in Comedia, uscito nel 1998 per Bompiani, la sua maturità: la critica, che ancora esisteva, me lo riconobbe e Tande è un’ideale prosecuzione. Antonello Satta Centanin, quando ancora non aveva scelto lo pseudonimo di Aldo Nove, scrisse di me che macino tutto in poesia; in questo caso, anche il lessico famigliare: “tande” era infatti la mia coperta di Linus, la biancheria intima di mia madre che da piccolina stringevo sempre tra le mani. La lingua dell’infanzia è forte qui come in Comedia. E solo dopo averlo scelto come titolo, mi sono accorta che questo mio personale neologismo, tande, è l’anagramma di Dante. Il mio rapporto con il Sommo Poeta è ombelicale, Dante è la mia Beatrice: salute e salvezza».

Nel libro è forte anche il tema dell’abuso linguistico nell’infanzia, e forse sta lì la ragione del suo essere estremamente diretta, fino quasi alla scorrettezza.


«Sono convinta che la lingua sia una forma di prevaricazione degli adulti nell’età prima della memoria, in cui non hai difese, in cui introietti tutto senza filtri. In questo senso Tande è autobiografico ma non confessionale (sebbene io ami la poesia confessionale). Non c’è nessuna tentazione di trasfigurazione lirica, anzi, chi oggi in poesia percorre quella strada per me è un impostore. Io scavo sotto il livello dell’accettabilità non per scandalizzare il borghese, o forse sì. L’innescare una bomba lirica nel sistema della famiglia, e rendere più violento un linguaggio violento di per sé, è il lato politico della mia poesia. È una posizione radicale non perché lo voglia, ma perché così mi viene. E non desidero convincere nessuno: in Tande l’io lirico non è giudicante, ma fa parte del pandemonio».

L’intersezione tra storia personale e i grandi eventi della Storia torna anche nel nuovo libro.La poesia civile le interessa?

«Per me ha pieno diritto di chiamarsi civile la poesia americana dell’Ottocento, Whitman in testa. Tande è casomai un libro regressivo perché torna indietro ai punti cruciali della mia formazione. Sono nata a metà anni Sessanta, e appartengo a una generazione sconfitta, che ha visto la morte di tanti coetanei, sia per l’eroina, sia come conseguenza di malattie mentali. La mia generazione, insomma, le ha prese di santa ragione: siamo nati e cresciuti nell’agio convinti che avremmo vinto ma così non è stato, e oggi siamo bambini invecchiati. Nella mia poesia, dunque, non c’è nessun auspicio: più che civile la definirei patetica, nel senso più nobile».

Tutta la sua opera, compresa quella saggistica, fa capire che la sua formazione è passata anche dal femminismo. Cosa ne pensa di quello attuale?

«Mi sono sempre considerata una femminista non femminista, perché ho criticato e critico tutt’ora il femminismo matriarchista. Credo piuttosto a ciò che oggi chiamiamo queer. Ho sempre creduto, cioè, nelle persone e non negli individui, a prescindere dal genere sessuale; a un comunismo delle persone e non a un individualismo capitalista, se vogliamo parlare per grossi termini. Penso che si debba combattere tutti fianco a fianco, la sorellanza mi è sempre parsa una lobby esattamente come la fratellanza maschile. Non mi piace che i giovani si siano estremizzati nel definire le categorie: la questione non è il genere, e chi insiste non fa che crearne di nuovi, perdendo tempo e tralasciando obiettivi cruciali. Ovvio che condanni i maschilisti violenti, reputandoli però un problema non solo delle donne, ma anche degli uomini».







Rosaria Lo Russo. “Io, Dante e la mia sfida partita da lontano” – su La Repubblica