
Intervista a Rosaria Lo Russo- Lo stato dell’arte
Fabrizio Centofanti
La poesia e lo spirito, 13 luglio 2024
Quel che si usa chiamare poesia per me è un’operazione prettamente linguistica il cui senso – in fondo è quello che dice Roman Jakobson in Linguistica e poesia, un saggio fondamentale per inquadrare questa modalità artistica che chiamiamo poesia – il cui senso, dicevo, è non comunicativo ma espressivo. E’ cioè un uso del linguaggio, anzi una produzione linguistica il cui senso non ha un valore referenziale immediato. In poesia A non è uguale a A, o almeno non necessariamente. Il linguaggio poetico tuttavia agisce – come ha ribadito per tutta la sua lunga carriera Nanni Balestrini. La sua azione è linguistica ma se la lingua è innovativa, se cioè sorprende quanto a forme lessicali, sintattiche eccetera, allora mette in moto il gran meccanismo dell’immaginazione umana, ovvero ciò che crea la realtà umana. La realtà, materiale, spirituale, biologica, tra qualche tempo anche quella dell’intelligenza artificiale (o forse è già così come accadeva nel film di Kubrik?) esiste a prescindere da noi, prima, durante e dopo di noi (presto non lo sperimenteremo). Ma la realtà degli esseri umani è fondata sulla percezione la quale è tradotta in immaginazione, immaginazione che può essere anche solo visiva (la scrittura, poesia e altro è una immaginazione anche visiva) ma più specie-specificamente è linguistica. Ciò che chiamiamo pensiero è lingua in azione e le azioni linguistiche possono essere logiche, illogiche, vere, false eccetera eccetera, ma soprattutto lingua in azione si traduce in voce. L’essere umano produce linguaggio tramite un organo fonatorio, che se è malato può essere in qualche modo sostituito da marchingegni che mimano la funzione organica della produzione della voce. Quindi – è sempre una reminescenza jakobsoniana – se ciò che chiamiamo poesia è un atto, o meglio un gesto, linguistico che si differenzia (anche per tratti minimi) dal linguaggio utilitario-comunicativo per una disposizione fonica accentuatamente ritmica ecco che ciò che antropologicamente diciamo poesia è un atto affine al rito liturgico, qualsiasi liturgia si tratti, dalla preghiera allo slogan politico. Dalla supplica alla rivolta, dall’inno gioioso al pianto funebre delle madri uccello del popolo kaluli, la lingua ritualizzata dal ritmo e il suo uso non solamente comunicativo e principalmente estetico-espressivo parallelo all’espressione musicale inventa una percezione aumentata e diversa della realtà. Mettendo a fuoco particolari inauditi, sorprendendo con analogie, metafore e tutto l’armamentario, che siamo soliti pensare scolasticamente invece che visceralmente, della metrica e della retorica, l’azione poetica fa la realtà umana, immaginandola. Questa è una grande responsabilità, etica e politica. Dell’estetica non mi importa granché. Il bello non inventa il mondo, lo decora. Del vero invece mi importa moltissimo. Il vero, o meglio la ricerca del vero, inventa un nuovo mondo, fonda utopie che certamente prima o poi si avvereranno – le profezie. Non c’è nulla di trascendente nella poesia, la scrittura mistica è quanto di più aderente alla materia del mondo io abbia esperito mai, la poesia è profetante per mestiere perché appunto inventa il mondo presente passato e anche futuro. Tramite il lavoro fonoritmico il senso si fa da sé, ma è l’intelligenza poetante (inconscia o conscia) che ricorda i suoni arcani delle connessioni neurovegetative. Tutto esiste da sempre contemporaneamente: si tratta di sentire e di vedere questi stati-strati, questi gangli, questi snodi, o catene microbiche di esistenza percependoli attraverso il gesto delle mani che digitano e dei suoni che si srotolano nella mente poetante e che se sono dotati di carica euristica risuoneranno a casa loro nell’apparato fonatorio di chi leggerà quella poesia, non solo ad alta voce, poiché, come la preghiera, anche se la voce non è alta risuona eccome nella lettura muta. E quanto lavora il silenzio! Quante cose accadono nel silenzio fra strofe, nei baratri dei capoversi. In questo silenzio che si sporge verso ogni ignoto si accende la connessione fra il sistema neurovegetativo di chi ha scritto quella poesia e quello di chi la sta leggendo. E anche se il senso andrà in direzioni sempre diverse, da autore a se stesso e da lettore a lettore, sempre si tratterà di immaginazione del mondo, di invenzione della realtà. Ed è un gesto oltre che coraggioso, sempre erotico. La realtà che la poesia inventa si modifica in due, o in massa, un’orgia!, fra poetante e poetato, se così posso dire. Se non c’è questa scossa elettrica sinaptica la cosa che stai leggendo e che si dice poesia è un inutile e narcisistico vaniloquio.
La poesia così richiede molto coraggio perché richiede al poeta e al lettore di ricusare ogni falsificazione estetizzante, ogni logorrea poeticante, con sdegno e furore: senza sconti. Perché la falsificazione, la moneta falsa, le falsirene sciocche, pullulano ad ogni angolo. Oggi più che mai. Fino al Novecento si era più primitivi in questo. Sì, c’erano tanti libercoli di finta poesia in giro ma era facile evitarla, bastava cestinare e riciclare la carta. Ma la vita digitale rende molto più complicata, e quindi radicalmente consapevole, la ricerca poetica. Richiede molto senso dell’umorismo scrutare un orizzonte dove tutto è appianato. Quanta paccottiglia POST nei post di poesia di ogni giorno! Non esiste alcun pre e post neo e vetero in poesia. Nella vera poesia queste temporalizzazioni sono falsificatrici, sono superfetazioni eccessive dell’intelligenza. Non occorre molta intelligenza in poesia occorre piuttosto capacità di stupirsi anche come un babbeo. L’intelligenza spesso rompe le uova nel paniere anche ai bravi poeti.
Lo stato dell’arte è assai confuso, frammentario, ogni cultore della materia riceve quotidianamente attacchi massivi di pseudorealtà poeticante che ti trapana gli occhi; fuoriesce da tutte le parti questa materia inutile e viscosa. Il cestino virtuale si riempie molto in fretta. Dunque in moltissimi perdono la strada ancor prima di averla intrapresa. La “speranza in un presente migliore” è esattamente l’obiettivo del vaniloquio permanente dei poetafondai: impostura. La Speranza, beato chi ce l’ha, è una virtù teologale. Il presente dell’uomo il suo passato e il suo futuro è la morte. Se sia migliore non so ma è lei ed è con lei che ogni gesto artistico fa continuamente i conti. Se qualcuno vuole aprirsi uno spiraglio verso il senso, dal mio punto di vista di boomer non aggiornata, dovrebbe leggere tre ore al giorno a alta voce la Commedia di Dante e studiare Linguistica e poesia di Roman Jakobson come l’avemmaria, dopodiché la solita trafila Kristeva-Barthes- Foucoult-Deleuze eccetera eccetera. Ma non ho ovviamente nessun suggerimento a parte quello, ovvio, di leggere i grandi poeti e le grandi poete della propria lingua madre per ore e ore, anni e anni, prima di scrivere poesia nella stessa lingua. Meglio immaginarsela la poesia che scriverla, è più appagante. Scrivere solo se strettamente necessario.