Dalla raccolta inedita “Tande”



Sospinte dal vocio della piazza, sopraggiungono
lungo la salita accosto al cimitero di sant’Antonio
note dell’inno nazionale, come da un sogno di sepolti.
I tonfi delle grancasse, attutiti dal silenzio circo-
stante, una folata lieve, breve il suono si sfoglia dalle cime
dei cipressi, si arresta, recede, ritorna e riposerebbe nella coclea
se non provvedesse lesto a interdire ogni pace un sogghigno di disgusto
dietro la mascherina, che avrei potuto anche sollevare qui all’aperto
se non fosse che i fasci sono tornati solo da voi, da me ci sono
sempre stati. Soppesando con una spallata se meglio cremare e disperdere
i resti o tumulare e lasciare un segno di sé per qualche tempo ancora,
quando succederà, mi dico, spero solamente che la mente sia da tempo
immemore avvolta nella chiocciola muta del corpo come in un sudario.

Sviluppa ancora l’involucro asfissiante del sudario madre:
“sei morta” avviluppa avvilito il vocio cavo, l’ugola mencia
mestamente sciorina i soliti salamelecchi, “anzi continui a mo-
rire”, sogghigna all’ascolto, non hai scampo, e perciò ride, ride da
sempre più forte. Sei morta e dissepolta e te ne vanti ai quattro ve-
nti, non aspettavi altro, da queste parti. Ricorrono i distinguo,
quindi, smussando gli angoli della bocca col coltellino svizzero
del non detto Tuttofare. Ma non basta. Claudica l’emiciclo cranico,
si volta e si rivolta nel sonno senza tempo come in un sudario.
E perde. Sgoccia. Coagula come un avanzo di mestruo. Perde
ogni plausibile dolcezza del finale di partita e treeebisonda,
raschiandolo, il fondo del barile. Non si sa mai se qualche per-
la riaffiorasse a imbambolarla, a incatramarla, a riserrarla.

 

Me scavo reperto mummia del mammolitico del parletico a vòto
del paralitico del voto fatto al santo paraclitoride canterino nel mentre che l’occhio strabico si aggirava fra le coscine di pollo in quella foto scolorita anni settanta in cui al mio compleanno invitata me la canto e me la sono con voluttà distratta, come Celine a Meudon, come Cavalcanti a Sarzana. Mi azzanna la malaria dei rimorsi. Ti appesto appetendoti, divento tenacemente disappetente, serro la bocca, fugo i sughi che trasudi, svenendo, svenendo. Mi aggiro fra le pinturas  negras dei tuoi occhieggiamenti, dei tuoi spaventi in blocco nel buio pesto della quinta del mio sordo elementare. Non soccorre la maestra Viviani, non soccorre la maestra Mannelli brava consigliera, non soccorre la matematica applicata, scorrevano le ore chiuse nel labirinto scolare: sguardavo dalla finestra sul cortile il tuo mozzicone di sigaretta che bragia acciaccata sul mio moncone teso, proteso, artigliante nel foco sordo che mi affina piccole lussurie penitenti, fioretti. Castigata faccia al muro conto presbite le pietruzzine, i vetrini colorati, le smanie, le rabbie, le Furie che perseguitano il matricida Oreste, mio fratello mite, col male al pancino. Dolorino dolorino vai via da questo pancino, resta in quinta, non sforare, non sforare, aggirati raggirato nella quinta del sordo elementare, e grida inascoltato, Pancio, grida e rigrida. Canta l’anello dei Nibelunghi, Sigfrido l’avrà ripescato. E se è ancora lì, infuria, perdìo, infuria. 



Fotografia di Enrico Donzellotti


Inediti di Rosaria Lo Russo su Atelier poesia