
Teroni
Mi pare che la veste ideale per le tue poesie sia la performance, ovvero qualcosa che prevede una recitazione pubblica e quindi si distingue dalla poesia letta, diciamo, in una dimensione solitaria. Ti chiedo semplicemente: qual è il motivo di questa scelta?
Lo Russo
Sicuramente è così. Il motivo affonda, diciamo, negli inizi, perché agli inizi della mia vita, già nell’infanzia ma poi sempre di più dall’adolescenza ero amante dell’arte, venivo portata spesso da mio padre a teatro o a vedere mostre; ma la mia prima grande passione è stata il teatro. Il teatro come luogo in cui dal buio esce la parola, dalla luce esce la parola, dal luogo, dalla persona fisica, però in una dimensione isolata, esce la parola.
Quindi la parola davanti a un pubblico viene da un isolamento, da una tragedia maggiore di quella lirica della pagina che non sempre innesca lo stesso effetto, mentre il teatro in qualche modo è sempre tragico, c’è sempre una persona inerme che si espone. Sicuramente la mia poesia è al fondo di tutto quella di una voce inerme che si espone, per di più per ingaggiare una lotta, quindi inerme, senza armi, ma per un moto ostinato di ribellione.
Una voce inerme e un’ostinata ribellione… Ed è ancora così?
Sì. Questo non è mai cessato di essere così dall’inizio e questo non esclude la gaiezza, non esclude la giocosità, anzi, si serve anche di una certa rumorosità, di un’energia anche eccessiva, che talvolta è stata definita barocca, è una modalità che ha l’imprinting di ciò cui ho assistito in età molto giovanile, a spettacoli molto forti; ho visto da molto giovane il teatro di Tadeusz Kantor, di Lindsey Kemp, di Carmelo Bene e, sin da piccolissima, andavo ogni anno al circo. Il circo è per me un posto mitologico. Il miracolo dell’arte accade lì! In quella commistione di sublime e osceno. Come accade nel circo, nel teatro, accade nel cinema di Totò, nelle tecniche geometriche e folli del vaudeville, del varietà, lì è, o era, in atto, la verità mostruosa e sublime dell’arte. E poi, grandiosamente, nell’opera lirica… da molto piccola, poi per tutta la vita, ho assistito all’opera lirica. Che fortuna avere una famiglia di melomani. Ecco, la dimensione che accade nella mia mente, quando si accende una poesia la mia testa diventa un teatrino con queste varietà possibili dall’estrema delicatezza al casino del Luna Park (altro luogo pieno di arte).
La domanda che mi viene ovvia da porti è, se amavi il teatro, la forma recitativa, perché hai scelto la poesia e non direttamente il teatro?
In realtà io, a 14 anni scribacchiavo delle poesie, però era iscritta a una regolare scuola di teatro, che ho frequentato fino a 18 anni. Tecnicamente sono un’attrice fallita. Diciamo però, che il caso volle che questa scuola di teatro, molto ben condotta da mio maestro Paolo Coccheri, avesse una meritevole abitudine, quella di fare ogni domenica mattina dei reading di poesia, in cui spesso venivano inviatati i poeti che avremmo letto, almeno quelli che in quell’epoca erano ancora vivi, attivi a Firenze, i poeti ermetici Bigongiari, Luzzi, Parronchi, io li ho conosciuti tutti, poi nella mia lunga vita di performer di poesia, ho conosciuto poeti ancora più importanti, ho letto alla loro presenza, premi Nobel come Brodsky, come Szymborska e decine e decine di altri, Giorgio Caproni per esempio, al gabinetto Vieusseux di Firenze. Io di fatto faccio più la lettrice di poesia che la poetessa quantitativamente, anche se ormai diciamo abbiamo quasi pareggiato i conti, poi verso i sedici anni ero lanciatissima nel teatro comico, cioè era molto brava, avevo i cosiddetti tempi comici, quindi mi volevano prendere nella famosa Compagnia della Rocca, che allora era una compagnia molto importante di teatro nazionale, perché ero molto cicciotta, sfrontata, sfacciatissima, molto buffa, recitavo molto bene Feydeau, ma purtroppo ero minorenne e non se ne fece di nulla.
E poi che accadde?
Poi, purtroppo, a 18 anni ho avuto il primo di una lunga serie di esaurimenti nervosi, che si sono manifestati innanzitutto con attacchi di panico, e dunque ho dovuto smettere di recitare perché mi venivano gli attacchi di panico un po’ in generale ma uno mi è venuto proprio durante l’ultimo provino (di ben 5, e ne avevo superati 4…) che dovevo sostenere per entrare nella scuola di Gassman, che allora era a Firenze nella sedia santa Maria, in Oltrarno, dove da ragazzina avevo assistito a La classe morta e Wielepole, Wielepole di Kantor. Indimenticabile il profilo immobile di quel regista mentre assisteva alla recita dei suoi attori formidabili…. Avevo superato tutte le prove, poi mi trovai di fronte Vittorio Gassman (che era altissimo, bellissimo, famosissimo, torreggiante) e mi dimenticai tutta la fuga di Saba che avevo portato, che è un classico incubo dell’attore, mi dimenticai tutto, il vuoto, il buio… è anche un sogno che ho fatto, ricorrente, molto fantozziano, quello che entro in scena e mi dimentico tutto.