
Anne Sexton, Trasformazioni, Favole
di Silvia Acierno.
“Un luogo in cui, anche se a una età in cui è impossibile ricordare, o di cui il ricordo ci resta soltanto per apparizioni o brandelli, erano già state”
(Noi senza mondo, L. Pugno)
Le fiabe, prima di essere qualsiasi altra cosa, sono un pezzo della nostra infanzia. C’era una volta, stavolta vale anche per noi. Vivono laggiù, ci parlano da laggiù e, se ci lasciamo fare, ci riportano laggiù. Al confine con la meraviglia e l’orrore. Ce ne ricordiamo eppure sono cieche e buie perché appartengono a un’età che abbiamo perduto comunque. Camille Paglia ha scritto questa frase che mi ossessiona: “Grattate il favolista e troverete l’orrore della donna e della natura”. Soprattutto quel “grattare”: la favola per sua natura deve essere grattata, scorticata, assieme a lei dobbiamo toglierci qualcosa di dosso, scuoiarci di quel patetico io di oggi per provare ad accedere a quello di tanto tempo fa.
E conservare anche tutto il tempo che ci separa da laggiù, quello spazio in cui la fiaba è rimasta apparentemente immobile ma si è, spesso a nostra insaputa, autorigenerata. Le fiabe posseggono questa virtù, di crescere su se stesse, una specie di scatola cinese, in una irraggiungibile trasformazione (che non sono le pedanti varianti né le piatte riscritture): ogni lettura sarà piena di tutte quelle che l’hanno preceduta, eccetto una. Alla fiaba mancherà sempre il capitolo successivo, un fotogramma, quell’altro pezzo di noi che non abbiamo ancora sognato perché non siamo ancora nati.
Cercare la verità a proposito delle fiabe (quella di Biancaneve e di tutte le altre) mi sembra allora davvero vano, ancora più vano e pretenzioso che cercarla, la verità, tra le realtà o le loro macerie (anche se lì abbiamo rinunciato a cercarla perché ci fa più comodo). Così ha ragione Paola Cortellesi che, nella lectio inaugurale alla LUISS, ha scosso un po’ le acque, dicendo quello che ha detto e che per giorni è circolato sui social e nei salotti giornalistici delle varie reti, che oramai sono una propaggine dei social. Ha ragione quando fa ironia su Biancaneve che in fondo è una specie di colf dei nanetti, ecc. Anche se il vero gesto ironico della regista è stato forse parlare di fiaba proprio alla LUISS, lì all’apertura dell’anno accademico, lì sulla soglia così ufficiale dell’età adulta, quando le fiabe è meglio riporle nel cassetto, perché quello che dovevano insegnare l’hanno già insegnato. Siamo cresciuti, oramai!
Ma ha ragione anche la scrittrice Simona Vinci quando scrive che Biancaneve “non è quella che fa da serva ai nani, ma è quella che ha il coraggio di scappare da sola nell’ignoto del bosco per sfuggire a un destino di morte”. O Jonathan Bazzi quando, ammaliato da principesse e sirene, vede nel principe azzurro nient’altro che un burattino. Abbiamo tutti ragione quando cerchiamo di interpretarle le favole, non di riscriverle per i tempi moderni, in cui è essenziale non offendere nessuno anche se poi ci dedichiamo ad odiare tutti. Abbiamo tutti ragione quando cerchiamo di ricordarle, non quando ci rinunciamo o chiudiamo la questione pensando di aver già detto tutto.